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Devianza minorile:
diritti ed istituti giuridici dei minori


PROCESSO PENALE MINORILE
Nel campo delle competenze penali esistono norme che caratterizzano il processo minorile, differenziandolo da quello ordinario. Una differenza notevole riguarda l’imputabilità del minore, nel senso che i minori imputati di reato possono essere soggetti a trattamento penale, ma il giudice deve accertare concretamente, in ogni caso, la sussistenza della capacità di intendere e di volere. Le norme relative all’imputabilità del minore corrispondono ai dettami della Scuola Positiva, secondo la quale la delinquenza minorile rappresenta il risultato di particolari carenze, di ordine biologico, psicologico e sociale, carenze che esigono in ogni caso interventi di cura, di rieducazione e di trattamento. Secondo i principi di tale dottrina viene favorita un’indagine scientifica della personalità, che utilizza gli apporti delle scienze umane all’interno del processo penale e che tende a fornire una spiegazione causale della delinquenza, secondo la quale il reato è la conseguenza di una personalità fragile ed immatura. Sostanzialmente ne è derivato un orientamento rieducativo, che tende ad evitare ai minori le sanzioni penali, mediante il riconoscimento di una immaturità, e che tende a creare strutture finalizzate a trattare carenze e problemi particolari della devianza giovanile. Anche il processo e le formule terminative del processo penale minorile hanno caratteristiche particolari. L’istruzione è sempre sommaria, al fine di ottenere maggiore rapidità e snellezza, le udienze del Tribunale sono tenute a porte chiuse, sono prescritte speciali ricerche sui precedenti personali e familiari dell’imputato ed è consentita l’assunzione di informazioni e la consulenza di tecnici per determinare la personalità del minore e le cause della sua condotta irregolare. Due sono i principi ai quali si ispirano gli interventi processuali: 1) il principio della minima offensività, 2) il principio dell’attitudine responsabilizzante (Palomba 1989). La cornice operativa è che il minore venga messo nelle condizioni di comprendere la vicenda processuale e di agire, al suo interno, da protagonista, in quanto soggetto di diritti. In questo senso si esprime l’art. 1 comma 2: ”il giudice illustra all’imputato il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza, nonché il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni”. Un articolo rivolto esplicitamente al giudice, ma che si estende a tutti gli altri soggetti dell’intervento. Affinché l’adolescente possa utilizzare, in senso responsabilizzante, le azioni giudiziarie a lui rivolte è necessario che queste si rendano a lui comprensibili. Il processo penale non intende proporsi come momento educativo, ma tenta di non produrre fratture nel percorso evolutivo dell’adolescente. Sottolineando la necessità che il processo venga svolto avendo cura di non interrompere i processi socializzativi del minore, la normativa sembra integrare nelle proprie previsioni, che le conseguenze giudiziarie di un’imputazione rappresentino un momento di grave difficoltà per l’adolescente. Perché il processo possa produrre funzionalità socializzativa è necessario che sappia tener conto delle capacità di ogni singolo imputato di comprenderlo, inserirlo nei propri percorsi di vita e nella complessità dei compiti di sviluppo (Polmonari, 1991, 1993), che caratterizzano la fase adolescenziale. Da questa ottica discende la posizione affermativa che la nuova legge assegna al minore (De Leo1989; Palomba,1989), riconoscendolo come soggetto di diritti processuali, sia pure tenendo conto della sua fase evolutiva. A questo proposito è indicativo l’articolo 12, dove rispetto all’obiettivo di garantire all’imputato assistenza psicologica e affettiva in ogni stato e grado di procedimento, è previsto che sia lui stesso a proporre le persone che ritiene idonee a svolgere tale funzione. Ciò che è importante sottolineare è il riconoscimento del minore come persona, la presa d’atto delle sue capacità propositive e decisionali nella situazione processuale, che gli appartiene, e dove, fra i vari attori, assume un ruolo protagonista, poiché a lui si chiede di rispondere di un’azione reato con tutte le conseguenze penali che ne derivano. La finalità responsabilizzante del processo minorile è rappresentata da alcuni istituti che introducono in Italia l’ipotesi della diversion (Lemert,1971) e quella della probation giudiziaria, accanto alla già prevista probation penitenziaria (affidamento in prova al Servizio Sociale della L. 354/75). Si può parlare della non rilevanza a procedere e sospensione del processo (art. 27) e messa alla prova (art. 28). Nel primo caso la formula cerca di estromettere dal sistema penale gli autori di reati a scarsa rilevanza sociale, e per la definizione di tale sentenza, preliminari sono la tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento. E’ una soluzione di diversion senza intervento, dal momento che all’uscita del ragazzo dal sistema di giustizia non seguono rinvii ad altri contesti operativi né obblighi di trattamento. Invece con la messa alla prova, il procedimento formale non viene annullato ma solo sospeso, quando il giudice ritiene di dover valutare la personalità del minore all’esito della prova. Nel periodo di sospensione (non superiore a 3 anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a 12 anni, negli altri casi per un periodo non superiore ad un anno) l’imputato viene affidato ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia per lo svolgimento delle attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con lo stesso procedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minore con la persona offesa dal reato. In quest’ultimo caso si parla di mediazione penale minorile, che trova applicazione nell’ambito del D.P.R. 448/1988. Lo strumento della mediazione si pone nell’ottica del recupero sociale del minore, tale restituzione si realizza attraverso una serie di attività socializzanti a favore del minore. In tale contesto, il ruolo del mediatore penale è educativo, proprio per la funzione di stimolo al riscatto morale e sociale esercitata nei confronti del minore, oltre ad una responsabilizzazione sul danno causato e sulle possibilità di riparazione. La premessa necessaria è che i percorsi giudiziari vengano attivati a partire da una conoscenza approfondita del caso, focalizzata sugli aspetti di personalità in interazione con i sistemi di vita del minore e finalizzata agli obiettivi propri del processo. Gli interventi vengono realizzati all’interno di un processo di comunicazione attivato ed elaborato da tutte le figure specialistiche e specializzate, che si occupano del minore, senza produrre quella rigida separazione che, con più frequenza nel passato, aveva caratterizzato i rapporti fra settore della giustizia e ambito territoriale. Criterio di orientamento per la concretezza degli interventi è la conoscenza della personalità, affinché il minore si possa allontanare dalla vicenda giudiziaria, avendone compreso il significato; l’attività conoscitiva deve mantenere i confini che sono propri del contesto all’interno del quale si esplica.

DIRITTI DEL MINORE
La fonte più vicina alla quale si è ispirato il processo penale minorile è costituita dalle Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile, approvate al VII° Congresso delle Nazioni Unite del 1985. In tali Regole minime sono riportati tra le altre cose i diritti del giovane. L’articolo 7, dispone che devono essere sempre assicurate garanzie procedurali di base, come la presunzione di innocenza, il diritto alla presenza del genitore e del tutore, il diritto alla notifica delle accuse, il diritto al confronto e all’esame incrociato dei testi, il diritto a non rispondere e il diritto di appello. Queste Regole affermano inoltre “che la Giustizia Minorile dovrebbe proteggere i diritti e la sicurezza e promuovere il benessere fisico e morale dei minori”. Pertanto si afferma che la privazione di libertà di un minore deve essere una misura presa come ultima possibilità, limitata al minimo necessario e riservata ai casi eccezionali. La risoluzione prevede una serie di garanzie, di carattere sia legale, sia trattamentale, attraverso modalità di accoglimento degli istituti. Fra questi vengono menzionati i diritti all’educazione, alla formazione professionale, al lavoro, al tempo libero, alla religione, alla salute, i rapporti con l’esterno, i procedimenti disciplinari e il rientro in comunità. Nel 1987 un Comitato d’esperti elaborò un Progetto di raccomandazioni sulle reazioni sociali alla delinquenza giovanile, che invitava a rafforzare la posizione legale del minore con riferimento a :
• presunzione di innocenza;
• il diritto all’assistenza di un avvocato (l’ordinamento giuridico penale prevede la difesa obbligatoria e specializzata per i minorenni, come l’espressione dell’inviolabilità del diritto di difesa);
• il diritto alla presenza dei genitori o di altro rappresentante legale, che devono essere informati della procedura fin dall’inizio;
• il diritto per i minori di introdurre testimoni e di interrogarli, sostenendo un confronto;
• la possibilità per i minori di chiedere una contro-perizia ed ogni altra forma equivalente di investigazione;
• il diritto del minore di prendere la parola e perfino di pronunciarsi sulle misure che si intendono assumere nei suoi confronti. L’audizione del minore nel suo processo è strumento di garanzia in quanto rende più facile conoscerlo e comprendere quali siano l’attività e il futuro migliori. Divenuta necessaria nell’elaborazione del progetto di messa alla prova, non lo è essenziale, ai fini dell’applicazione delle misure cautelari, nel giudizio di convalida dell’ arresto;
• il diritto all’appello;
• il diritto di chiedere la revisione delle misure disposte;
• il diritto-bisogno del minore di mantenere continui e attivi rapporti con la sua famiglia, che viene proposta come referente privilegiato per la sua crescita, anche nel corso della difficile esperienza processuale.

L’ACCERTAMENTO DELLA MATURITÀ COME RISPOSTA PENALE ALLA DEVIANZA
Solo recentemente è cominciata, nella giurisprudenza dei Tribunali per i Minorenni, una riflessione sul significato dell’art. 98 del c.p., il quale impone, al fine dell’affermazione dell’imputabilità dei minori tra i 14 e i 18 anni l’accertamento caso per caso della capacità di intendere e di volere. Nel compiere l’indagine sia il giudice che il tecnico non possono né debbono riferirsi a modelli o paradigmi fissi, ma devono focalizzare la loro attenzione a due momenti, dal punto di vista teorico distinti, ma concorrenti. Innanzitutto, è necessario accertare la maturità in astratto tenendo presente che tra intendere e volere esistono uno stretto condizionamento ed una reciproca dipendenza, in quanto le turbe della volontà sono in genere strettamente dipendenti da quelle dell’intelligenza. In secondo luogo è necessario accertare, in rapporto al livello di maturazione raggiunto dal soggetto ed al tipo di reato commesso, se il minore nella concreta situazione vissuta in quel momento fosse in grado di inibire gli impulsi, oppure se le circostanze particolarmente traumatiche del momento avessero determinato, secondo un fenomeno tipico della fase adolescenziale, una regressione psicologica e quindi un condizionamento all’azione, secondo meccanismi di comportamento immaturi. I due momenti dell’indagine si giustificano se si tiene presente che non ci si può limitare ad una interpretazione statica, quale è la valutazione della maturità in astratto, ma si deve anche, trattandosi di dare un giudizio su una determinata condotta, approfondire l’interpretazione dinamica, quale è appunto la valutazione della maturità in concreto. Lo sviluppo degli studi psicologici, psichiatrici e sociologici ha portato ad una considerazione del minore e dei suoi comportamenti. A tal fine vengono indagate le vicende personali e familiari del minore, sottolineando l’importanza delle esperienze precoci nella formazione della personalità, individuando le carenze e le distorsioni dei rapporti intrafamiliari. L’intervento che consiste nella ricostruzione dell’affettività, consta di due momenti:
1. l’osservazione,che deve essere particolarmente analitica ed attenta ad ogni vicenda del minore;
2. il trattamento che va impostato secondo i risultati dell’ osservazione e deve tendere a rimuovere le cause,anche remote del disadattamento.
Nel dopoguerra, con la legge n. 888 del 1956, al concetto di traviamento si sostituisce quello di irregolarità della condotta e del carattere, concetto che viene correlato a quello di devianza o di disadattamento, elaborati in sede socio-psicologica. In seguito a ciò i Riformatori si trasformano in Case di Rieducazione che vengono, progressivamente, aperte verso l’ambiente esterno.
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