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Devianza minorile:
diritti ed istituti giuridici dei minori


NUOVE PROSPETTIVE NELL’INTERPRETAZIONE DELLA DEVIANZA
Le nuove prospettive nello studio della devianza hanno messo in crisi i presupposti sui quali si basavano le precedenti teorie ed hanno ribaltato la visuale attraverso cui osservare e interpretare la devianza. Le nuove correnti criminologiche hanno tutte concentrato il loro interesse, pur con diversi accenti, sulla reazione sociale, cioè su quei meccanismi e su quei processi che la collettività e le istituzioni mettono in atto nei confronti degli individui definiti devianti. Recentemente De Leo ha proposto il modello costruttivista nella spiegazione del crimine, che consiste nel fornire una spiegazione sistemica e non di causalità lineare. Sulla base di questa prospettiva teorica, il comportamento deviante viene definito da una complessa rete di interazioni che producono significati intorno all’azione ed al suo autore. Questo paradigma attribuisce inoltre una funzione dialogica all’azione deviante, nel senso che quest’ultima, alla pari di ogni altra azione umana, presenta dei contenuti comunicativi. In particolare l’interazionismo ha dimostrato che la devianza non è soltanto il risultato di un comportamento contrario alle norme, ma deriva anche da un processo di selezione e di etichettamento, operato in primo luogo dagli organi di controllo sociale. L’approccio del naturalismo, che si oppone radicalmente alla prospettiva correzionale, ritiene che non sia possibile la comprensione di un fenomeno quando lo scopo principale dell’ intervento è la correzione o la soppressione del fenomeno stesso. Secondo i nuovi teorici del conflitto i gruppi che detengono il potere hanno a disposizione tutta una serie di strumenti per criminalizzare gli appartenenti ai gruppi con minor potere. Infine il marxismo ritiene che viene individuato più facilmente come deviante chi appartiene alla classi subalterne ed infine che il crimine rappresenti il risultato di un conflitto profondo tra borghesia e proletariato.

TRIBUNALE PER I MINORI E RELATIVE COMPETENZE
Il diritto minorile trova le sue fonti in tutte quelle norme giuridiche che impongono una deviazione dalle regole generali in conseguenza dell’età minore (Baviera). Le particolari esigenze dei minori hanno indotto il legislatore ad istituire nel 1934, un apposito organo, il Tribunale per i Minorenni, nel quale sono riunite le competenze penali, civili ed amministrative. Tali Tribunali sono stati istituiti con R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404, nell’ ambito di ogni Distretto di Corte di Appello. La legge del 1934 ha subito nel corso degli anni un certo numero di modifiche ed ha avuto una notevole integrazione con la legge 25 luglio 1956, n. 888, e 27 dicembre 1956, n. 1441, e più recentemente con il D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616. Il Tribunale per i Minorenni è costituito da un Magistrato di Corte d’Appello, che lo presiede, da un Magistrato di Tribunale e da due cittadini, un uomo e una donna, scelti tra i cultori di biologia, psichiatria, di psicologia, di pedagogia, di antropologia culturale, che abbiano compiuto il trentesimo anno di età. Fino al 1977 il Tribunale per i Minorenni ha utilizzato strutture e servizi sociali afferenti al Ministero della Giustizia, servizi che avevano il compito di intervenire in campo di competenze penali, civili ed amministrative, al fine di fornire un supporto tecnico ed organizzativo alle attività dei giudici minorili. Dal 1977 la principale funzione di supporto tecnico ai magistrati minorili è fornita dai servizi sociali dei Comuni, ai quali è stato dato il compito di organizzare tutte le attività che riguardano l’applicazione delle misure amministrative e civili, mentre ai servizi sociali del Ministero della Giustizia è rimasto soltanto il compito di intervenire nel settore penale. Le diverse competenze del Tribunale per i Minorenni hanno avuto un’importanza ed uno spazio molto differenti dal 1934 ad oggi. Schematicamente si può affermare che a partire dal 1934 la competenza che occupava maggiormente i giudici minorili era quella penale; successivamente a partire dal 1956, l’attenzione maggiore è stata rivolta alla competenza amministrativa (rieducativa); infine in questi ultimi anni il maggior interesse sembra essersi spostato verso le competenze civili (Balloni e coll.). Questa evoluzione è stata facilitata dalle trasformazioni legislative, ma è stata condizionata anche da mutamenti di atteggiamenti. In una prima fase i magistrati minorili utilizzarono soprattutto lo strumento penale, come sancito dalla legge del 1934, con la cultura del tempo, che attribuiva un’importante funzione emendativa alla pena. Nel 1956, con la legge di riforma, si affermò l’ideologia rieducativa, pertanto furono programmati tutta una serie di presidi di tipo assistenziale rieducativi, come il Servizio Sociale Minorile, realizzato di fatto nel 1962. In quel periodo tutti i problemi della devianza giovanile, erano stati gestiti all’interno di un’ottica rieducativa, poiché il minore che infrangeva la legge veniva considerato come un soggetto bisognoso di cure, di terapia, di correzione. La personalità del minore era al centro dell’intervento e l’obiettivo era quello di risolvere i conflitti ed i problemi alla base del comportamento deviante, che veniva considerato come il sintomo di un disagio psicologico e sociale. Alla fine degli anni ’60, l’ideologia rieducativa fu investita da una decisa critica, per la prima volta le problematiche relative alla giustizia minorile divennero oggetto di analisi da parte dell’opinione pubblica. Si sottolineò che il sistema giudiziario minorile era sempre stato punitivo, si osservò che gli istituti per i minori avevano sempre assunto una funzione di etichettamento. Quindi si dimostrò che l’affermata finalità riabilitativa mascherava in realtà un’azione di emarginazione. Durante il periodo della legge sull’adozione (1967), la riforma del diritto di famiglia (1975), nei magistrati si sviluppò la tendenza a far rientrare la devianza giovanile all’interno delle competenze civili. Le misure adottate non erano più motivate dai problemi di personalità del minore, ma dall’inadeguatezza e dall’incapacità dei genitori. Ma anche questo approccio mostrò rapidamente i propri limiti, in modo tale che da parte della magistratura si giunse di buon grado ad accettare la delega agli Enti Locali della gestione di molti problemi connessi con la devianza giovanile. Con il D.P.R. n. 616, del 1977, si trasformò radicalmente l’organizzazione delle misure amministrative la cui competenza fu trasferita dal Ministero della Giustizia ai Comuni. Con questo D.P.R. n. 616, il problema della conciliazione di punizione e terapia, di controllo e di socializzazione, si pose in maniera più acuta, in quanto la definitiva chiusura degli istituti rieducativi statali obbligò gli Enti locali ad affrontare il difficile compito della gestione della devianza giovanile. In questi ultimi tempi si è andato affermando un nuovo orientamento, che auspica una netta separazione tra le finalità di controllo e di aiuto che esistono nel sistema rieducativo, ed evidenzia la necessità di confrontare i minori con le norme. Secondo questa tendenza la devianza non esprime necessariamente un bisogno di aiuto e di terapia e non coincide con la condizione di soggetto immaturo e deprivato. La punizione viene irrogata nei confronti di un comportamento che non è più considerato come l’espressione di una personalità deviante, ma che viene isolato come un fatto negativo, da contrastare, pertanto l’intervento punitivo è centrato unicamente sul reato. È per questo motivo che nell’ambito di questo orientamento viene spesso richiesta una trasformazione dell’attuale sistema sanzionario, da attuarsi soprattutto attraverso la messa in atto di misure alternative alla pena detentiva.

ISTITUTI GIURIDICI IN FAVORE DEI MINORI
Nell’ambito della competenza penale il Tribunale per i Minorenni può applicare la pena detentiva, diminuita rispetto agli adulti, che deve essere scontata nelle prigioni-scuola, ma può concedere anche:
• la liberazione condizionale, in qualsiasi momento dell’esecuzione della pena e qualunque sia la durata della pena stessa. Viene concessa dal Giudice di Sorveglianza del Tribunale per i Minori e consiste nel sospendere la pena residua a chi abbia dato prova costante di ottima condotta durante il periodo di detenzione;
• formule di proscioglimento: si applicano quando il minorenne autore del reato non è imputabile, oppure lo Stato non ha interesse a perseguirlo in quanto il suo comportamento non è significativo di una scelta strutturata in senso trasgressivo e il processo non può perseguire finalità educative. Tra esse troviamo il ”non luogo a procedere per non imputabilità” per i soggetti minori di quattordici anni; il “non luogo a procedere per non imputabilità” per incapacità di intendere e di volere, sulla base di quanto sancito nell’ art. 98 c.p., con esclusione dell’imputabilità e quindi della possibilità di subire una pena; il “non luogo a procedere per irrilevanza del fatto”;
• il perdono giudiziale, quando il minore ha commesso un reato per cui il Tribunale per i Minorenni crede si possa applicare una pena restrittiva della libertà personale non superiore a due anni. Il perdono giudiziale è uno dei benefici per i minori che consente al giudice di astenersi dal pronunciare condanna o dal disporre il rinvio a giudizio nei confronti di un minore che sia stato riconosciuto colpevole di reato. Il fondamento dell’istituto risiede, secondo il Baviera, in quei principi di comprensione e di clemenza verso i giovani, che ispirano tutto il diritto minorile. Dal punto di vista della natura giuridica, il perdono giudiziale è concepito come causa estintiva del reato. Per ottenerlo è necessario che il ragazzo non sia mai stato condannato e che il reato sia di breve entità (non superiore a due anni di pena prevista);
• la riabilitazione speciale, che permette la non menzione dei precedenti penali, anche quando il certificato penale venga richiesto da una pubblica amministrazione, salvo che abbia attinenza con procedimenti penali.
Il giudice può decidere di adottare altre misure cautelari non detentive, durante le quali il minorenne è affidato ai Servizi della Giustizia Minorile, affinché svolgano interventi di sostegno e controllo in collaborazione con i Servizi di assistenza dell’Ente Locale. Sono misure cautelari non detentive:
• prescrizioni inerenti attività di studio o di lavoro o altre attività utili per la sua educazione, al fine di non interrompere i processi educativi in atto. Tali obblighi hanno efficacia per due mesi e sono rinnovabili una sola volta, per esigenze probatorie. Nel caso di gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni, il giudice può disporre la misura della permanenza in casa;
• la permanenza in casa, che corrisponde agli arresti domiciliari previsti per gli adulti. Nel corso di essa il giudice può anche imporre limiti o divieti al minore di comunicare con persone diverse da quelle che coabitano con lui o che lo assistono. Nel caso di gravi e ripetute violazioni degli obblighi a lui imposti o nel caso di allontanamento ingiustificato dall’ abitazione, il giudice può disporre la misura del collocamento in comunità;
• collocamento in comunità, disposto dal giudice, che ordina che il minorenne sia affidato ad una comunità pubblica o autorizzata. Contestualmente può imporre eventuali specifiche prescrizioni inerenti attività di studio o di lavoro o altre attività utili per la sua educazione, al fine di non interrompere i processi educativi in atto. Il responsabile della comunità collabora con i Servizi della Giustizia Minorile e dell’Ente Locale. Nel caso di gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni imposte o di allontanamento ingiustificato dalla comunità, il giudice può imporre la misura della custodia cautelare per un tempo non superiore ad un mese, qualora si proceda per un delitto per il quale è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.
Per quanto riguarda le modalità di esecuzione dell’arresto o del fermo, una volta che il P.M. riceve dalla polizia giudiziaria la notifica dell’arresto o del fermo dispone che, il ragazzo venga trasferito in una comunità o presso un Centro di Prima Accoglienza, che rappresenta una specie di comunità-alloggio, con regime di sorveglianza. La finalità è quella di garantire un luogo-filtro, non caratterizzato in senso carcerario, dove avviare i primi contatti fra operatori, con i sistemi di vita del minore, con i servizi che, eventualmente, si sono già occupati di lui e procedere ad una prima raccolta di informazioni rispetto alle quali fornire al giudice elementi utili, per l’applicazione della misura cautelare più idonea. La permanenza in C.P.A è provvisoria ed è destinata a concludersi entro il brevissimo termine del giudizio di convalida. Pertanto il minore può essere sottoposto a misure penali attenuate rispetto all’adulto e può inoltre usufruire di una vasta gamma di misure che permettono di evitare o di limitare il contatto con l’ambiente carcerario. L’applicazione delle norme penali ai minorenni risulta particolarmente elastica, in quanto condizionata dalla valutazione della personalità del minore. L’accertamento processuale della personalità ha in prima istanza scopi legati a decisioni giudiziarie e solo in una prospettiva più ampia collegata con l’obiettivo di un rapido reinserimento sociale del minore, tali accertamenti sono anche finalizzati ad interventi psico-sociali. Sempre nell’ambito penale il Tribunale per i Minorenni deve prescrivere le misure di sicurezza, nel caso in cui al minore sia attribuita la pericolosità sociale, sulla base di una previsione di probabile recidiva. In particolare la struttura che predispone il controllo dei minori dichiarati socialmente pericolosi, è costituita dal Riformatorio Giudiziario, che cerca di conciliare le esigenze di sicurezza con finalità di tipo rieducativo. L’art. 25 della legge del 1934 prevedeva l’internamento in un riformatorio per una cattiva condotta del minore, che necessitava di una correzione morale. Pertanto costituiva finalità della giustizia minorile la correzione morale, che doveva avvenire mediante forme afflittive e attraverso una terapia, imposta di autorità, mediante un rapporto formale e giudicatorio, fatto di prescrizioni riguardanti lo studio, il lavoro, l’istruzione religiosa, la disciplina, ecc.. Un’altra misura di sicurezza è la libertà vigilata che non può avere durata inferiore ad un anno. Oltre alle misure penali, il Tribunale può utilizzare misure di tipo amministrativo, che hanno rappresentato per molti anni lo strumento più significativo dell’attività dei giudici di tale settore. I provvedimenti di tipo amministrativo sono rappresentati soprattutto dall’affidamento del minore al Servizio Sociale e dal collocamento in una casa di rieducazione o in altra struttura educativa. La legge del 1934, istitutiva del Tribunale per i Minorenni, ha attribuito a questo organo anche una competenza civile. Codesta competenza riguarda l’inserimento del minore nel nucleo familiare, sia naturale che acquisito, oppure di un minore privo di una famiglia.
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